Storie di ordinaria follia

Non sono quelle di Bukowski (alias: Henry Chinaski), ma quelle sull'esistenza di Dio.

Prima o dopo l'infinito
Se Dio è, allora Dio non esiste - Se Dio esiste, allora Dio non è.
Bastava leggere Heidegger in Essere e tempo (1927) per capirlo, quando dice che l'esistenza è ciò che è uscito dall'Essere (ex-sistere), cioè ciò che ha perso la caratteristica di Essere e ne è andato fuori, dunque, non è l'Essere, bensì è la condizione di coloro che esistono, uomini, animali, piante, mondo minerale.

Sull'esistenza di Dio
Da wikipedia: In Occidente, il termine "Dio" si rifericse tipicamente al concetto monoteistico di un Essere Supremo, ovvero un essere del quale non si può pensare nulla di più grande, secondo la definizione di Sant'Anselmo d'Aosta (1033-1109): Deus est ens quo nihil maius cogitari potest. Una definizione comune in questa tradizione afferma che Dio possiede ogni perfezione possibile, incluse qualità quali onniscenza, onnipotenza, e una perfetta benevolenza.
Naturalmente ci sono altre definizioni, ma tutte riconducono a qualcosa che vuole rimarcare l'infinita distanza dal "finito".

A ben vedere ciò che mi si presenta davanti, direi che un Tale così supremo non lo riscontro come autore del tutto, in quanto i tanti errori che vedo, ad esempio nella biologia, (e che se fossi Dio avrei potuto prevedere, dal momento che ho tempo infinito), non possono essere l'opera di un Tale così ma, al massimo, di un pessimo ingegnere che fa delle prove e non riesce ad uscire dalle tante incongruenze che, nonostante tutto, si evolvono da sole. Darwin aveva visto bene (1859): ci si evolve, e non è detto che lo si faccia sempre in meglio, anzi, ad una parabola ascendente verso il meglio in alcune cose, in genere segue una parabola discendente verso il peggio, e non è che si si ferma al vertice della parabola ascendente nel Meglio Assoluto, come sosteneva Hegel circa lo Spirito Assoluto della Storia (1807).
Poi, mentre ci sono cose che hanno una parabola ascendente ce ne sono altre che, nello stesso tempo, ne hanno una discendente. Esempio: il coniglio finito sulla mia tavola ha una parabola discendente, mentre io che lo mangio ne ho una ascendente.
Inoltre, il riferimento al termine "parabola" è improprio, e occorrerebbe riferirsi alla "curva logistica", ma l'immediatezza del linguaggio ha le sue necessità! E poi questa vale in "costanza" delle risorse, mentre qui non si assume, come certa, nemmeno questa costanza.

C'è un'altra questione, ed attiene alle buone maniere che tutti dobbiamo tenere con tutti (salvo che con i soggetti in malafede): Se io faccio i bucatini all'amatriciana e il sugo mi viene con la cipolla bruciacchiatata - si! ci metto anche la cipolla, per alleggerire - e, dunque, sa di amaro, a nessuno dei convitati verrebbe in mente che l'ho fatto per un bene ultimo supremo di cui essi non si possono rendere conto (ma d'altronde - mettiamo - essendo io una persona riconosciuta da tutti come fidata e rispettabile non potrebbe che essere così).
A tutti verrebbe in mente, invece, e anche se non me lo facessero osservare, che avrei potuto anche prestarci più attenzione nel momento di rosolamento della cipolla nella padella. Pur sedendomi a mangiare dopo i convitati, dal momento che rigoverno in parte i fornelli, mi accorgerei dalle smorfie di essi che qualcosa non va e giungerei subito alla conclusione, dopo la prima forchettata di bucatini, che la cipolla è bruciacchiata e anche io storcerei il naso. Giungeremmo inevitabilmente tutti alla conclusione che ho fatto un "errore" e non che ho perseguito un "bene supremo ultimo sconosciuto ai presenti" (ma io, ovviamente, non sono Dio, e non sarei destinatario di tanta delicatezza, bensì mi direbbero: Che sòla che c'hai dato!).
Ora spiego le buone maniere: come si fa ad attribuire il mondo, con tutti i difetti che ha e le sofferenze che vi si verificano per tutti gli esseri che ci stanno, uomini, animali, piante, minerali, all'opera di un Tale Perfettissimo, Onnipotente, ecc.?  E se veramente il Tale fatto così ci fosse, allora egli dovrebbe sdegnarsi immensamente per avergli attribuito, noi terreni mortali, le tante nefandezze del mondo. Se non si sdegnasse, vorrebbe dire che non se ne è nemmeno accorto, o ha altro a cui pensare e, dunque, avrebbe fatto tutto ciò che gli si attribuisce con grande superficialità, come un pessimo ingegnere, appunto, lasciando andare, poi, a rotoli il tutto (secondo principio della termodinamica: l'entropia, cioè il disordine, aumenta sempre).
Se veramente credessi che esiste un Tale fatto come lo descrive Sant'Anselmo d'Aosta, allora attribuire le nefandezze del mondo a lui vorrebbe dire offenderlo, e ciò non è consentito a nessuno, nemmeno per fini ultimi e supremi, e nemmeno ai soggetti in malafede.

Se poi l'essere "é" davvero in qualche regione dell'universo (ma allora vorrebbe dire che c'è dell'altro in qualche altra regione), o in tutto l'universo (ma non potrebbe, in quanto allora niente è uscito da Se e, dunque, non v'è esistenza alcuna nell'universo), questo non è dato sapere a noi esistenti (cioè a noi che non siamo nell'Essere proprio perché ne siamo fuori - l'ex-sistere di Heidegger) e, con Wittgenstein (1927), si deve dire: Di ciò di cui non è dato sapere, si deve tacere.

Il resto mi pare una speciosa riflessione millenaria sulla paura della morte e, ancor prima, sulla paura della vita, e sulla ricerca di un "aiuto" esistenziale, anche quotidiano, a queste angosce che verrebbe fornito da un qualcuno, lassù nei cieli, ma solo se siamo stati buoni - aggiungono ovviamente le religioni.

Rimane il fatto che c'è più "saggezza" nelle piccole viscere di un piccolo moscerino che non in tutta la storia del pensiero dalle origini a noi, parafrasando, ma non troppo, Abbagnano (1923), e in accordo con Gesù sul patibolo che disse "Non cercatemi tra i morti perché sarò tra i vivi", che viene letta da Hegel come "Non disperatevi perché la vita che sto per perdere la ritroverete tale e quale in tutti gli esseri viventi", e non nel senso della resurrezione, come la vendono da 2000 anni certe gerarchie cristiane (Lezioni sulla filosofia della storia, 1821-1831, parte III, sez. III, cap. 2).

Per integrare questi scarni ragionamenti vedi:  Russell, la teiera spaziale e l'asino che vola, con i video YouTube. E se ti va, anche Parmenide.
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INTEGRAZIONE (dopo attenta riflessione, ma non tanto)
Qualcuno dirà che io sono ateo. Ma non è così. E mi spiego.
La "a" davanti al "teo" nella parola "ateo" ha il significato di "senza", "mancanza", cioè "senza dio".
E io mi dico: E allora? Quante cose mi mancano? Per esempio non ho un soldo, ma a nessuno verrebbe da stigmatizzare questa circostanza come una circostanza strana, dal momento che i soldi non erano la condizione della mia nascita. Se mi mancasse una gamba, invece, si potrebbe dire che sono "senza una gamba" dal momento che per nascita tutti gli umani ne hanno due e non una.
Al pari, "essere senza dio" è del tutto indifferente, giacché non è la condizione della nascita. Dunque, "essere senza dio" ha lo stesso insignificante senso di "essere senza orologio Rolex", o senza qualcos'altro.
Di converso, mi chiedo se coloro che credono (in dio, ma anche nella "crescita" sempre annunciata da qualche statistica governativa e mai arrivata), abbiano qualcosa più di me, o abbiano qualcosa meno di me.
Mi sono detto che se costoro non applicano le ordinarie (e straordinarie - ci mancherebbe altro) facoltà del cervello per dedurre o indurre qualcosa da ciò che osservano, allora vuol dire che è a costoro che manca qualcosa, e non a me.
E cosa manca, dunque a costoro? Manca proprio l'uso del cervello, al pari di uno che, pur avendo due gambe, ne usa una sola per un qualche recondito e imperscrutabile motivo, e dunque lo si direbbe "zoppo" cioè mancante di una gamba (tanto gli effetti sarebbero gli stessi) pur essendo nato con due e, dunque, davanti alla parola gamba occorrerebbe mettere la famosa "a" con il senso di "privativo".
Se si può ripescare dal dizionario un vocabolo capace di descrivere questa situazione, direi che l'unico vocabolo appropriato e pertinente è "acefalo" nel senso di senza testa, come le statue di marmo di imperatori decaduti.
Dunque, se il ragionamento fila ordinato e in modo logico, un credente lo si può chiamare anche acefalo, perché, pur avendo il cervello, al pari di quello che ha 2 gambe, in realtà non lo usa e, dunque, è come se non l'avesse.
Con ciò credo di aver spiegato perché io non sono ateo ma sono i credenti ad essere acefali, ovvero, a me non manca niente, ma a costoro si.